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A mostra del Cinema chiusa, da Viva Zapata a Viva Zapatero

Stefania Sandrelli

di Turi Vasile su QUADERNI RADICALI
 
Se si volesse condensare la storia della cinematografia dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi basandosi sulla Mostra di Venezia, si potrebbe dire: da “Viva Zapata!” a “Viva Zapatero!”.
I giornali ci hanno informato che quest’ultimo film è stato salutato da una lunghissima ovazione finale; zelanti cronometristi hanno calcolato un applauso di 15 minuti, altri hanno registrato 13 minuti, ma il possessore di un orologio che correva di più garantisce i 20 minuti. Provate a fissare sul quadrante del vostro orologio il passaggio del tempo, 13,15, 20 minuti vi sembreranno interminabili.

Risulta invece che l’attribuzione a Stefania Sandrelli del premio alla carriera sia passata pressoché inosservata. Se “Viva Zapatero” ha meritato, in omaggio al nuovo corso, un così lungo tripudio, io metaforicamente dedico alla nostra attrice un tributo dalla durata di almeno 21 minuti. Non mi pare, infatti, che molti altri riconoscimenti alla carriera artistica siano stati meritati come questo. Stafania Sandrelli è, infatti, l’Attrice illuminata dalla Grazia, senza radici, senza scuole di recitazione, senza metodologia.

Tengo a spiegare tanta mia enfasi. Incontrai la Sandrelli all’inizio degli Anni Sessanta, era stata notata per una sua apparizione breve ma folgorante in “Divorzio all’italiana” e Germi la aveva riproposta per il ruolo di protagonista in “Sedotta e abbandonata”. Io ero il coproduttore, per la Ultra, di questo film, insieme con Cristaldi della Vides e Gualino della Lux. Stefania venne a trovarmi nel mio ufficio per farsi conoscere prima delle riprese. Dei tanti incontri professionali con attori e attrici nel corso della mia lunga carriera cinematografica, quello lasciò un indelebile segno. Lei era uno scricciolo, parlava con l’accento toscano della Versilia e aveva l’aria assente. Mi parve che mugugnasse sottovoce una canzonetta, un motivetto di quelli che non danno requie se uno se la canta da sé; si guardava intorno ma non mi parve che fosse interessata ai mobili, ai quadri, alle finestre su cui volgeva gli occhi. Confesso che, al contrario di quello che accade in simili casi, il più imbarazzato ero io. Non osavo mettere in discussione, neppure mentalmente, la scelta di Germi, ma non potevo evitare una sorta di piccola perplessità. A un certo punto lei si alzò e andò ad affacciarsi alla finestra; si comportava come se io, all’improvviso, non ci fossi. Si sporse verso la strada sottostante e accarezzò i gerani della fioriera sul davanzale, poi si voltò e mi domandò. “Come sono le ragazze di Sciacca?”. Restai un attimo interdetto, poi esclamai: “Come lei!”. Scoppiò a ridere contagiandomi l’ilarità. Si fece seria e disse, un po’ compunta: “E’ una domanda stupida, vero?”

Io, siciliano che ero stato più volte a Sciacca, non avevo saputo rispondere; lei, quando la vidi sullo schermo nei giornalieri, rispose per me: era la ragazza di Sciacca, si era identificata con lei. Non dico che fosse irriconoscibile, ma era un’altra: una ragazza dal collo lungo che camminava nel corso della città arabo-sicula, vestita di nero, rassegnata e ribelle insieme. Sapevo che non aveva avuto il tempo e il modo per studiare il suo ruolo così lontano da lei; ma con un colpo d’occhio in apparenza distratto era riuscita a penetrare nel personaggio al contrario di tante brave attrici che hanno bisogno di essere studiatamente finte per apparire vere. Lei era vera e basta, per un dono che appartiene al mistero della immagine riflessa in grado di trasformare le fisionomie, anche le brutte in belle e viceversa. Questo fenomeno, quasi inspiegabile, si chiama fotogenia. Nel caso però della Sandrelli il termine era insufficiente, per cui si può azzardare un neologismo: cinematogenia. Il prodigio camaleontico non si limitava alla figura e soprattutto al viso come in una fotografia statica, ma vibrava nei movimenti, nell’incedere, nella mimica, nella fisionomica, nell’essere e nel divenire. Solo la voce rompeva l’incanto. Veniva da tutt’altra parte, straniera con il suo accento irriducibile, a dimostrazione che l’arte del cinema è muta, è il linguaggio universale delle immagini mute in movimento.

Proprio l’anno dopo, nel 1963, scritturai la Sandrelli per un genere di film diametralmente opposto al capolavoro siciliano di Pietro Germi: un film in costume, di ambientazione veneziana, diretto da un regista, Duccio Tessari, un caro amico anche lui scomparso, più intelligente, forse, dei suoi film nei quali portava però sempre il suo svagato buon gusto. Nonostante il titolo – “Il Fornaretto di Venezia” – che suggerisce un genere decisamente popolaresco, il film era ben fatto, equilibrato, e si salvava dal pericolo melodrammatico grazie a un ritmo vivace, cinematografico. Il cast poi era di classe: Jacques Perrin, Michele Morgan, Enrico Maria Salerno e Gastone Moschin, interpreti eccellenti e costruiti, ai quali la Sandrelli nel ruolo della fidanzata del Fornaretto-Perrin teneva mirabilmente testa con la sua sorgiva disinvoltura. Portava il costume come se fosse il suo abito di tutti i giorni, si incastonava nel paesaggio veneziano alla perfezione. Visionando i giornalieri facevo passare mute le inquadrature in cui c’era lei, per gustarmi meglio il miracolo della cinematogenia.

Due anni dopo produssi un film di cui mi sia permesso di essere orgoglioso. Mi era costato quattro anni di infaticabili tentativi alla ricerca di una distribuzione che riducesse, col suo minimo garantito, il rischio che correva la società di cui ero amministratore delegato, sempre la Ultra. Regista era Antonio Pietrangeli inimitabile nel comporre ritratti di personaggi femminili e autore artisticamente assai valido. Il film si intitolava “Io la conoscevo bene” ed era la storia di una ragazza di campagna attratta dal miraggio della città alla cui grande luce si bruciava come una falena a una lampada. Era un tema allora ricorrente e mi piace definirlo col titolo di una commedia, di successo in quegli anni, di G. P. Callegari: “Le ragazze bruciate verdi”. Facevano corona alla Sandrelli attori eccezionali tra cui, Manfredi, Salerno, Adorf, Nero e Tognazzi nella struggente caratterizzazione di un clacchettaro fallito. Su tutti si distingueva lei che non sembrava, era la fanciulla innocente che pur tuttavia “incedeva spargendo sesso” per dirla con una definizione attribuitale da Moravia. Tutti la usavano e la gettavano via. E nella sua quasi animalesca incoscienza si insinuava il dubbio di una vita fallita, la tentazione di un irresistibile caduta come quella della sua finestra alla strada. La sequenza finale che descrive il suo suicidio è, a parer mio, la più felice interpretazione nella carriera di Stefania Sandrelli e un pezzo da antologia nella filmografia di Antonio Pietrangeli.

Io, dunque, la conoscevo bene, e anche se da allora la ho incontrata solo per telefono ho seguito con stima e simpatia le sue innumerevoli interpretazioni; a poco a poco è intervenuta, senza provenire dallo studio, la tecnica che si è inserita nella sua ispirazione rimasta tuttavia integra, come se l’arte si fosse accordata con la poesia.

Il premio all’attrice naturaliter interprete dei suoi personaggi non è stato sottolineato a Venezia come doveva. Il grande schermo della vanità si è adeguato alla moda zapateriana come risulta chiaramente dal rilievo che si è dato a certi film. A me ha donato, osservando la Mostra a distanza, la possibilità di azzardare un confronto tra Sandrelli e due altre nostre attrici, bravissime ma diverse da lei. Queste hanno studiato, anche recitazione, sono state all’estero, cittadine del mondo e sono, come dicevo prima, così studiatamente finte da sembrare vere. Esse però si trovano a essere prigioniere di un cinema italiano che si è ridotto sempre più a porte chuse senza la valenza filosofica di Sartre. Emerge il tema dell’incesto che viene da molto lontano ed è all’origine della drammaturgia occidentale greca, quando non era solamente uno stupro complicato dall’angoscia, ma un gesto lacerante, un’offesa sacrilega che chiamava la vendetta degli dei, era la tragedia dei tempi in cui la psicanalisi non era stata ancora inventata.

Ora l’epopea tragica e intimista, dei vincitori e dei vinti, non c’è più, i peones di Zapata e Pancho Villa hanno ceduto la scena alle contestazioni borghesi, anzi piccolo-borghesi, le ragazze “proletarie” frequentano ora i salotti buoni e si dibattono nella dilatazione delle intimità sessuali o nelle strettezze senza prospettive.

È chiaro che il premio a una interprete a suo modo “epica”, naturale, innocente, istintiva stritolata da un destino molto più grande di lei passasse inosservato, di fronte alla fatuità vociante, presuntuosa, impudica, talvolta oscena e empia della fiera della vanità veneziana. Viva Zapatero! Applausi interminabili da qui all’eternità…

Turi Vasile

19 settembre 2005