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La civiltà dei Celti. “Nessuno è perfetto”

di Turi Vasile

da www.quaderniradicali.it
 
Non si finisce mai di imparare; Sapete l’ultima? Il ferragosto vuota Roma la quale per chi vi resta diventa una piccola grande città che si lascia possedere offrendo le sue bellezze nascoste durante tutto l’anno dal traffico caotico. Credevo, ingenuamente, di dover essere grato per questo miracolo all’Imperatore Augusto che, sia pure ubbidendo al culto della propria personalità, diede al mese il suo nome e vi inserì, nel giorno 15, le feste già celebrate nelle calende di settembre in onore del dio Conso. Erudizione inutile se devo dar credito alla voce che il Ferragosto sia retaggio celtico come lo sarebbero Calendimaggio, la Candelora, con l’aggiunta persino di Halloween.

Per la verità negli ultimi tempi sono sempre più frequenti i richiami alla grande civiltà celtica di cui si vantano persino riti che credevamo inchiodati nel tempo. Sento parlare di chi ha contratto “matrimonio celtico”; confesso di non conoscere la sua liturgia, ma se celtico è, druido ha da essere il sacerdote che lo celebra. Dove lo trovano?

Non avendo, ohimé, ascendenze celtiche, credo di custodire in me un complesso di inferiorità. Il effetti i Celti furono antichissimo e civilissimo popolo; anche loro venivano dalla Valle dell’Indo, origine della grande migrazione che invase l’Europa si smistò in tutto il Continente come i vari rivoli di un grande delta. I Celti si distinsero per essere coltissimi, nonostante la loro religione gli vietasse di scrivere e di leggere, nonostante, insomma, che fossero analfabeti; e il “retaggio” ancora si avverte. Essi tramandarono oralmente la loro storia, le loro leggende, come Omero, solo che non trovarono chi li trascrivesse.

Erano guerrieri eroici e valorosi e usavano mozzare la testa dei nemici, sede, per loro dell’anima di cui aspiravano di assimilare il coraggio. La loro testa era invece ben protetta da elmi, con due corna, di bronzo, e pare che benevolmente qualcuno avesse affibbiato loro l’appellativo di “cornuti nobili”. La virtù che su tutti li contraddistingueva era il loro senso di probità e di giustizia. Brenno, l’eroe celtico che conquistò Roma nel 390 a.C., ne ordinò il saccheggio, allora eticamente codificato come legittimo bottino di guerra.

Chiese inoltre, per liberare Roma della sua presenza, mille libbre d’oro. Gli parvero però poco e pretese che ve ne fossero messe su uno dei piatti della bilancia (che in seguito doveva assurgere a simbolo di equità e di giustizia) quanti potevano “bilanciare” il peso del suo gladio glorioso messo nell’altro piatto. Di qui la celebre frase: “Vae visctis”, che tradotta significa “Guai ai vinti”. Alcuni storici attribuiscono a questo rastrellamento di ricchezza lo slogan oggi ricorrente di “Roma ladrona”.

Davanti a tanta fulgida memoria, io, giunto a Roma, villano dell’Estremo Sud senza poter contare antenati di grande cultura e di lignaggio, mi sento un povero outsider. Alle mie spalle ci sono poveri coloni emigrati, braccianti come io nonno, i figli di Esiodo, l’umile poeta della terra, autore tra l’altro de “Le opere e i giorni” che significa fatica e sofferenza. Quei miei lontanissimi antenati di cui porto ancora l’umile nome (basileus) fecero grande, anzi Magna la Grecia; ma tutto ciò è poca cosa: sono e resto un terrone del Sud, come mi viene ricordato a ogni piè sospinto. Terrùn! Gotico, villano, un verme di fronte a quie grandi civilizzatori cornuti e analfabeti che furono i Celti.

Ma non ho rancori; più che siceliota, mi sento – scusate la retorica… - italiano, come italiani sono i discendenti dei coltissimi, giustissimi, civilissimi Celti. Del resto: “Nessuno è perefettto”.

13 agosto 2005